Le Microplastiche che mangiamo

 

Di Plastica e microplastiche se ne parla tanto, e l’attenzione di tanti sembra essere quella di cercare alternative valide per mitigare il fenomeno del continuo accumulo di questo materiale così resistente. Eppure siamo ancora lontani dal raggiungere l’obiettivo e sempre più vicini a conoscere tutte le sfaccettature che questo materiale provoca alla salute umana e del pianeta. Il fenomeno delle microplastiche, così chiamate per le loro piccolissime dimensioni (330 micrometri e i 5 millimetri) sono l’aspetto occulto del ben noto accumulo di plastica nei mari e negli oceani: la loro pericolosità per la salute dell’uomo e dell’ambiente è dimostrata da diversi studi scientifici, i danni più gravi si registrano soprattutto negli habitat marini, e di conseguenza per gli esseri umani. Oggi una ricerca tutta italiana, getta una nuova ombra nera su questo tema:

È stata infatti provata per la prima volta nel mondo, la presenza di microplastiche nella placenta umana, da uno studio dell’Ospedale Fatebenefratelli-Isola Tiberina di Roma e del Politecnico delle Marche. Pubblicata sulla rivista scientifica Environment International, la ricerca ha analizzato le placente di sei donne sane, tra i 18 e i 40 anni, con gravidanze normali. Antonio Ragusa, primo autore dello studio spiega la gravità del ritrovamento affermando che “E’ come avere un bambino cyborg: non più fatto solo di cellule umane, ma misto tra entità biologica e entità inorganiche”. Questa ricerca va approfondita, poiché in realtà non si conoscono ancora gli effetti che le microplastiche possono produrre dentro l’organismo umano. Ma certamente potrebbero rappresentare un rischio enorme per via del fatto il sistema immunitario potrebbe riconosce come ‘self’ (sé stesso) anche ciò che non è organico, come queste particelle e dunque integrarle in esso.

Ma cosa sono le microplastiche esattamente e come si formano?

La plastica quando arriva in acqua (ed è lì che finisce, attraverso i fiumi, gli scarichi e via dicendo), si discioglie n frammenti più piccoli a causa dei raggi UVA, del vento, del caldo o anche dei microbi: questi processi possono durare più o meno un tempo necessario a ridurre un qualsiasi oggetto in microplastica.

Dagli anni Cinquanta alla prima decade degli anni Duemila, la produzione mondiale di plastica è passata da 1,5 milioni di tonnellate a oltre 280 milioni di tonnellate (con una crescita del 38 per cento negli ultimi 10 anni). La conseguenza è ovvia: più plastica viene utilizzata, più ne viene buttata, direttamente o indirettamente, nei mari: almeno otto milioni di tonnellate l’anno, secondo Greenpeace. Di questa enorme quantità, una larga porzione di microplastiche riesce a superare qualsiasi sistema di filtraggio dagli impianti di depurazione delle acque, dopo essere stati gettati nei fiumi che sfociano nei mari e negli oceani.

Non sempre le microplastiche si formano dalla decomposizione della plastica in mare, anzi, esistono alcune produzioni che le utilizzano appositamente per raggiungere obiettivi più performanti per manufatti di alcuni settori specifici. Ad esempio la Cosmesi e make-up, ma non solo.

Negli anni Novanta il settore della cosmesi e i produttori di prodotti per il make-up hanno cominciato a inserire “microsfere” nei detergenti per la pelle, nei dentifrici, nelle creme da barba. A metà degli anni Duemila i controlli hanno ritrovato queste microsfere di plastica in natura e nei sistemi idrici pubblici, finendo così anche nell’acqua che sgorga dal rubinetto di casa.

L’Italia sembrerebbe essere piuttosto avanti nel regolamentare questi frammenti contenuti nei flaconi di detergenti esfolianti e scrub, che finiscono in mare, ma il bando, entrato in vigore dal 1° gennaio del 2020, non vale per tutti i prodotti: ad esempio, i trucchi contenenti glitter luccicanti potranno essere ancora commercializzati, mentre queste microsfere sono bandite dagli esfolianti e dai detergenti da risciacquo. Con lo slogan “What’s in Your Bathroom?” il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente esorta a un acquisto e uso consapevole dei prodotti detergenti e di bellezza che contengono microplastiche. Ma come fare a distinguere tra tanti prodotti?

La dicitura che li svela è una tra queste: Polyethylene (PE), Polymethyl methacrylate (PMMA), Nylon, Polyethylene terephthalate (PET), Polypropylene (PP). Spesso si trovavano ai primi posti dopo l’acqua, quindi in percentuali molto alte. Alcune aziende sono riuscite a sostituirli con componenti biodegradabili e anche naturali, come noccioli di frutti, semi e Sali.

Un altro settore fortemente coinvolto è sicuramente quello della Moda e tessuti sintetici

Le fibre dei tessuti sintetici sono una fonte significativa di microplastiche, rinvenute in acque reflue e nell’ambiente acquatico. Il consumo delle fibre sintetiche, come poliestere, acrilico e poliammide è cresciuto molto nel settore dell’abbigliamento a causa della maggior resistenza e minor costo, arrivando a rappresentare il 61 per cento della domanda di fibre a livello globale. Da una ricerca della Norwegian Environment Agency è stato riscontrato che a ogni singolo lavaggio, per singolo indumento, vengono rilasciate fino a 1.900 fibre sintetiche. Per questo, secondo la stessa fonte, le emissioni di microplastica nelle acque derivate dal lavaggio di indumenti supera quello dei cosmetici, costituendo il 35 per cento del totale delle microplastiche in acqua.

Un’atra fonte è quella della Mobilità e degli pneumatici, poiché la parte esterna di quest’ultimo è costituita da polimeri sintetici mischiati a gomma e altri additivi. Un buon numero di microplastiche deriva così dallo sfregamento degli pneumatici sull’asfalto durante la guida. Le fibre di plastica rilasciate così nell’ambiente vengono trasportate in acqua dall’azione del vento e dalle piogge.

Tutto ciò diventa pasto dei pesci e dei crostacei di cui noi stessi ci cibiamo, anche a grandi profondità.

Tornando alla ricerca pubblicata da Popular Scienze, cinque particelle sono state trovate nella parte di placenta attaccata al feto e che è parte integrante del feto, quattro nella parte attaccata all’utero materno e tre dentro le membrane che avvolgono il feto.

Su come le microplastiche entrino nell’organismo umano il dottor Ragusa spiega che ancora non si conosce la via prevalente: “La prima riguarda l’apparato respiratorio e quindi il circuito ematico. La seconda attraverso l’alimentazione, via intestino. Anche alla luce di questo studio, risulta ancora più cruciale e urgente lo stop alle microplastiche aggiunte intenzionalmente nei prodotti e stop alle produzioni tessili di fibre sintetiche, che dovrebbe evitare che 500 mila tonnellate di microplastiche finiscano nell’ambiente nei prossimi 20 anni.

Come sempre la nostra riflessione alla luce di quanto appena considerato, è quella di chiedersi: cosa possiamo fare noi? L’informazione è fondamentale prima di qualsiasi scelta: cercare di essere meno frettolosi quando acquistiamo determinati prodotti, certamente potrebbe fare una grande differenza. Consideriamo sempre che se ognuno di noi cambiasse le abitudini in termini di acquisti, potrebbe concorrere a cambiare sensibilmente i trend di market a favore di scelte più sostenibili.